Assistenza domiciliare infermieristica. Il 91,7% dei pazienti è soddisfatto e la promuove. L’indagine Fnopi

All’indagine hanno aderito 77 Asl su 110, per una copertura del 75,3% della popolazione residente nel Paese. Calcolato per la prima volta il suo valore in termini economici grazie allo studio Aidomus-IT, promosso da Fnopi e curato dal Cersi sul 70% delle aziende sanitarie italiane: considerando 6,84 accessi/pazienti al giorno, è pari a 138,73 euro

Cure domiciliari, nelle Asl le Case della comunità sono ancora poco diffuse (solo nel 27,3% delle aziende), va un po’ meglio per i servizi di sanità digitale (presenti nel 57,1% delle Asl), ma il 92,2% delle aziende le garantisce comunque con personale infermieristico (con tempi medi di attivazione di 2 giorni). Una assistenza infermieristica promossa dai pazienti a pieni voti, quasi 9 su 10 dichiarano di essere sempre stati trattati con cortesia e rispetto dagli infermieri e di aver percepito che si stessero sempre prendendo cura di loro.

Questa l’istantanea scattata dalla prima analisi sull’assistenza infermieristica domiciliare in Italia “Il contributo dell’infermieristica per lo sviluppo della territorialità”, condotta nell’arco di dieci mesi del 2023 dal Cersi, Centro di eccellenza per la ricerca e lo sviluppo dell’infermieristica, che ha raccolto ed elaborato i dati su mandato della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi).

All’indagine hanno aderito 77 ASL su 110, per una copertura del 75,3% della popolazione residente nel Paese. È articolata in tre sezioni: la prima rivolta ai dirigenti delle professioni sanitarie per analizzare gli aspetti organizzativi dell’assistenza domiciliare; la seconda agli infermieri per rilevare le caratteristiche professionali, della loro attività lavorativa, delle condizioni di lavoro; la terza rivolta ai pazienti per rilevare la qualità e la soddisfazione dell’assistenza ricevuta.

La valutazione dei pazienti I pazienti hanno espresso nella quasi totalità una valutazione positiva sull’assistenza ricevuta e il 91,7% dichiara di essere sempre stato trattato con cortesia e rispetto dagli infermieri, l’86% di aver percepito che si stessero sempre prendendo cura di loro, l’83,3% di essere stato ascoltato attentamente, l’82% di essere stato sempre informato dagli infermieri su tempi e modi del loro intervento.

Una valutazione complessiva sull’assistenza domiciliare ricevuta, che espresso con voti da 0 a 10, ha meritato una media di 9,3 (con una punta del 9,4 negli anziani).

L’assistenza erogata dagli infermieri a domicilio Il numero medio di attività erogate per ASL (su 17) è 10,1. Il percorso per il paziente oncologico è presente nel 40,3% delle strutture e le attività per i pazienti cronici sono erogate dal 74% delle ASL, mentre quelle per gli utenti con disabilità dal 59,7%. I servizi di infermieristica di famiglia e di comunità sono erogati dal 68,8% delle aziende mentre, il 26% delle ASL li codifica come “infermiere di prossimità”.

La metà circa delle ASL eroga consulenze infermieristiche specialistiche e i servizi di sanità digitale risultano presenti in oltre la metà delle ASL (51,9%), di cui il 26% con attività di Teleassistenza.

Le attività di assistenza erogate dagli infermieri (prelievi ematici, medicazioni semplici e avanzate, somministrazione di farmaci, gestione di device, educazione terapeutica, sanitaria, formazione dei caregiver, monitoraggio e misurazioni delle condizioni di salute, valutazione delle condizioni familiari, cure palliative, procedure clinico assistenziali come gestione del catetere vescicale, gestione della nutrizione/dei dispositivi per la somministrazione di nutrizione enterale ecc.) sono garantite in quasi tutte le ASL.

Nelle cure domiciliari sono 49,5 su 1.000 abitanti gli over 65 presi in carico: 16,8 per 1.000 abitanti sono persone con gravi limitazioni per disabilità e l’8,2 per 1.000 abitanti malati cronici.

 

Il parere degli infermieri L’83,8% degli infermieri partecipanti ha dichiarato di essere soddisfatto o molto soddisfatto del proprio lavoro. Solo il 20,1% degli intervistati ha dichiarato che, se potesse, lascerebbe il lavoro nei successivi 12 mesi.

Circa un terzo dei partecipanti (37%) ha dichiarato un carico di lavoro medio-alto mentre il 10,3% un carico elevato e rispetto al clima del gruppo di lavoro e la possibilità di erogazione di cure sicure, il 65,8% ha riportato punteggi migliori, con una media di punteggio di 76,9.

Rispetto alle condizioni psicosociali nei luoghi di lavoro, il 65,8% ha riferito una criticità media. Rispetto agli episodi di violenza, il 20,5% dichiara di averne subito uno negli ultimi 12 mesi. Il 2,6% dei partecipanti ha dichiarato una violenza verbale con contatto fisico negli ultimi 12 mesi. Rispetto al numero di episodi di violenza, il 36,9% dichiara di averne subiti tre o più negli ultimi 12 mesi.

 

I costi dell’assistenza infermieristica domiciliare Grazie alla capillarità delle rilevazioni, lo studio Aidomus ha potuto calcolare il costo giornaliero di un infermiere che opera nel servizio di cure domiciliari, comprendente il tempo speso a domicilio (circa 24 minuti ad accesso), quello per raggiungerlo, per ritornare presso la struttura, e per le attività di back-office.

Questo costo, considerando 6,84 accessi/pazienti al giorno, è di 138,73 euro.

L’adeguatezza delle stime di costo è stata comparata e confermata anche dall’analisi di 12 capitolati di gara a livello nazionale in 10 Regioni italiane da cui risulta che il costo giornaliero di un infermiere (anche considerando il costo-orario medio appaltato dalle Asl secondo capitolato di gara) è di 152,12 euro per 6,64 accessi. Quindi, se la gestione delle cure territoriali è a carico del Ssn si registra un risparmio e la sostenibilità economica si racchiude in una duplice azione: il valore dell’assistenza domiciliare infermieristica erogata e il mancato costo di ricoveri ripetuti di anziani e fragili.

Lo studio inoltre consente di valorizzare economicamente il reale valore delle attività assistenziali svolte dall’Infermiere al domicilio della persona: rapportandole al tariffario ambulatoriale del 2023, il valore della produzione garantita dagli infermieri è pari a 636,31 euro/giorno.

Ne consegue che, in caso di mancata erogazione strutturata del servizio e ulteriore carenza infermieristica, si rischia di non poter garantire adeguatamente tali prestazioni in regime pubblico e convenzionato, costringendo il cittadino al ricorso all’out of pocket.

Anche per questo la Fnopi ritiene necessario e strategico investire sulla professione infermieristica, sostenendola a tutti i livelli.

Considerazioni finali e proposte politiche “I dati organizzativi dello studio - afferma il Comitato centrale Fnopi - sottolineano la necessità di delineare modelli organizzativi condivisi ed efficaci, basati soprattutto sulle necessità delle differenti categorie di pazienti. I diversi livelli di staffing e skill mix condizionano l’efficienza della risposta del sistema assistenziale. È auspicabile l’implementazione di modelli che prevedano il coinvolgimento di infermieri con formazione specifica nelle cure territoriali. Riguardo alle necessità espresse dai pazienti, l’indagine ha mostrato un’utenza soddisfatta dei servizi ricevuti”.

L’indagine condotta sulla soddisfazione degli infermieri rispetto al proprio lavoro, sottolinea ancora la Fnopi “impatta sulla ‘retentio’ degli infermieri stessi e dimostra una maggiore attrattività del setting domiciliare specifico. I dati rilevati sulle missed care (cure mancate) permetteranno, con approfondimenti futuri, di determinare i predittori delle nursing missed care sul territorio (anche riferiti alla singola attività) con ricadute positive sui costi dell’assistenza in termini di re-ricoveri impropri”.

“Attraverso le strutture, per ora scarse - conclude Fnopi -, quali case della comunità o unità di degenza infermieristiche, sarebbe possibile incrementare la quantità e la complessità degli interventi erogati in ambito territoriale, senza il coinvolgimento delle strutture ospedaliere, con un evidente impatto in termini di risposte ai problemi di salute del cittadino e di riduzione dei costi sanitari. Oggi la distribuzione della tipologia di servizi disponibili e delle relative risorse non sembra essere sempre in linea con la densità abitativa e dunque con le richieste della popolazione, contrariamente a quanto sottolineato dalla letteratura riguardo alla necessità di adattare il più possibile i modelli alle esigenze dell’utenza”.

 

Fonte: Quotidiano Sanità


L’Oms/Europa lancia una nuova rete per promuovere dati e soluzioni digitali per la salute

L’obiettivo della Spi-Ddh, rete di collaborazione che riunisce i 53 Stati membri della regione europea dell’Oms, è affrontare le problematiche legate alla trasformazione digitale dei sistemi sanitari e promuovere un futuro in cui tutti i pazienti e gli operatori sanitari possano beneficiare di tecnologie digitali per la salute sicure, accessibili e incentrate sulla persona.

L’Oms/Europa ha lanciato la Strategic Partners’ Initiative for Data and Digital Health (SPI-DDH), una rete di collaborazione che riunisce i 53 Stati membri della regione europea dell’Oms e i principali partner nei settori dei dati e della salute digitale. L’obiettivo è affrontare le problematiche legate alla trasformazione digitale dei sistemi sanitari e promuovere un futuro in cui tutti i pazienti e gli operatori sanitari possano beneficiare di tecnologie digitali per la salute sicure, accessibili e incentrate sulla persona.

Collaborazione multisettoriale La rete appena istituita riunirà oltre 100 rappresentanti degli Stati membri, di organizzazioni intergovernative, governative e non governative, dei centri collaboratori dell’Oms per i dati e la salute digitale, del settore privato e di istituzioni accademiche.

“Il nostro scopo comune che ci riunisce oggi è quello di creare un nuovo dialogo che coinvolga le giuste parti interessate sugli argomenti più importanti. Nessuna singola entità può liberare il pieno potenziale della salute digitale e dei dati. Ma attraverso la conoscenza e la comprensione coltivate attraverso questa piattaforma, possiamo lavorare insieme per garantire che i valori di equità e diritti umani siano al centro dei sistemi sanitari nell’era digitale”, ha affermato il dott. Hans Henri P. Kluge, direttore regionale dell’Oms per l’Europa, all’evento di lancio SPI-DDH a Copenaghen.

“Iniziamo un viaggio di trasformazione – ha affermato la dott. ssa Natasha Azzopardi-Muscat, direttrice della Divisione delle politiche e dei sistemi sanitari nazionali presso l’Oms/Europa, nel suo discorso di chiusura - la diversità di competenze mi assicurano che siamo sulla strada giusta per creare sistemi sanitari solidi e incentrati sulla persona nell’era digitale”.

Affrontare le sfide condivise Nonostante il promettente potenziale dei dati e delle soluzioni digitali per la salute, i paesi della regione incontrano ancora difficoltà nel finanziamento, nell’implementazione e nella gestione della trasformazione digitale dei loro sistemi sanitari. Ciò include una scarsa interoperabilità dei dati sanitari e una mancanza di opportunità eque per alcune delle comunità più vulnerabili.

Il rapporto dell’Oms/Europa “Salute digitale nella regione europea dell’Oms: il percorso in corso verso l’impegno e la trasformazione” ha rilevato che solo fino al 2% del bilancio sanitario nazionale totale è stato destinato alla trasformazione digitale nei pochi paesi che sono stati in grado di segnalare questa spesa.

Solo il 35% degli Stati membri ha politiche che affrontano l’uso di big data e analisi avanzate nel settore sanitario. Inoltre, pazienti e operatori sanitari segnalano bassi livelli di fiducia nelle soluzioni digitali, con preoccupazioni relative alla privacy e alla sicurezza.

Per affrontare queste problematiche, i partecipanti allo SPI-DDH hanno formato 4 gruppi di lavoro specializzati che si concentreranno su: sbloccare più capacità e accesso all’assistenza sanitaria con la digitalizzazione e l’intelligenza artificiale (IA) responsabile; sfruttare i dati e le tecnologie digitali per portare l’assistenza sanitaria e la prevenzione direttamente a casa;  adottare un approccio ecosistemico agli standard e all’interoperabilità nell’assistenza sanitaria; e rafforzare la sanità pubblica, concentrandosi sulla salute mentale e sul personale sanitario.

Il lavoro dell’SPI-DDH sarà guidato dalle priorità degli Stati membri e informato dalle più recenti ricerche scientifiche e dalle pratiche basate sull’evidenza, in linea con la strategia globale dell’Oms sulla salute digitale 2020-2025 e con il piano d’azione regionale per la salute digitale per la regione europea dell’Oms 2023-2030.

 

Fonte: Quotidiano Sanità

 


Oltre le liste d’attesa serve una riforma complessiva del Ssn

A ben vedere, ci si accorge che ancora una volta la politica che governa (ma anche quelle di opposizione che non vi fa affatto cenno!) ha perso una grande occasione: quella di procedere ad elaborare una riforma strutturale complessiva del Servizio sanitario nazionale, finalmente garante del diritto alla salute.

È in circolazione la bozza di decreto-legge recante misure urgenti per la sanità (non) erogata, transitata dalla Conferenza Stato-Regioni, che dovrebbe essere approvato in Consiglio dei Ministri il prossimo 3 giugno (su questa rivista articolo della redazione del 24 maggio scorso). Un prodotto di primo acchito “generoso” ma purtroppo, come al solito, pensato senza:

  • aver fatto il preventivo inventario di tutti i gravi malfunzionamenti esistenti, di conseguenza ampiamente trascurati;
  • preteso dalle Regioni alcuna rilevazione dei fabbisogni epidemiologici, lasciandole così tutte libere di nuotare nella brutta abitudine di non fare alcunché al riguardo da sempre;
  • individuati i fattori di rischio e previsto le garanzie assistenziali in caso di epidemie;
  • avere redatto neppure una ipotesi di Piano Sanitario Nazionale, assente dal 2006 in poi, dunque, senza avere programmato alcunché in via generale;
  • messa da parte ogni soluzione di tipo strutturale, che è ciò che servirebbe.

A ben vedere, il decreto-legge si presenta – atteso che non risolverà affatto il problema delle liste di attesa, nonostante la naturale ricaduta di incremento degli incassi degli erogatori accreditati privati – come atto emergenziale ideato unicamente allo scopo di strappare un consenso politico effimero nella prossimità di scadenze elettorali, peraltro modificando i dicta costituzionali e alcune delle leggi in vigore nonché invadendo competenze legislative di dettaglio delle Regioni.

Infatti, quanto ai LEA: sette Governi completamente disinteressati, dalla loro prima genitura del 29 novembre 2001 all’ultima del 12 gennaio 2017, aggiungendo a questi i quattro successivi, anche essi disattenti al tema, fatta salva la previsione nella legge di bilancio per il 2023 funzionale all’istituzione del CLEP, del quale però non si sa più nulla.

Attuare e applicare la Costituzione sono due cose diverse ma inseparabili

Leggendo la bozza datata 3 maggio scorso, si nota che si fanno risorgere vecchi strumenti – del tipo la “Carta dei diritti dei cittadini in materia di prestazioni sanitarie” – in un Paese ove non si attua nel concreto la Costituzione, a cominciare dalla istituzione delle Regioni, per finire ai Lep e alla perequazione, per concludere con la esigibilità dei diritti sociali degli anziani e dei disabili. Figuriamoci quali grandi benefici arriveranno dalla novella Carta dei diritti di cittadinanza, che peraltro trascura, al riguardo, la esatta e corretta percezione del destinatario costituzionale del diritto alla tutela della salute che deve essere assicurato allo “INDIVIDUO” (art. 32 Cost.).

Una attenzione, questa per l’individuo piuttosto che per il cittadino, che sarebbe stata indicativa, apprezzata dall’UE e dimostrativa della dovuta considerazione nei confronti degli immigrati, regolari e irregolari. Non solo avrebbe costituito un corretto esempio di attuazione e applicazione della Costituzione, oggi confusi in una inspiegabile sinonimia, da doversi assolutamente distinguere e concretizzare per loro conto e nell’insieme.

Le risorse: quali, quante e dove trovarle

A ben vedere, ci si accorge che ancora una volta la politica che governa (ma anche quelle di opposizione che non vi fa affatto cenno!) ha perso una grande occasione: quella di procedere ad elaborare una riforma strutturale complessiva del Servizio sanitario nazionale, finalmente garante del diritto alla salute. Così come preteso dalla Costituzione e dalla grande riforma del 1978, istitutiva del SSN e dell’universalismo.

Dunque, un dovere istituzionale trascurato, nonostante lo start prossimo sulla mutazione del finanziamento dei LEA: dalla spesa storica ai costi e fabbisogni standard. Al riguardo, ed è preoccupante, non è dato di capire quali saranno e da dove perverranno le risorse per assicurare quanto è programmato in più rispetto all’attuale.

Ma si sa, si voterà l’8 e il 9 giugno. È molto più facile essere marinai (dalle facili promesse per ogni porto) che rocciatori, costretti ad arrampicarsi con tanta fatica per raggiungere quelle mete lasciate perdere dal 2001, imponendo così venticinque anni di sofferenze sociali e indebitamenti giganteschi, specie nelle regioni del sud del Paese.

 

Di Ettore Jorio - Quotidiano Sanità


Referendum CGIL: una firma per restituire dignità al lavoro

Nelle scorse settimane la Cgil ha depositato in Cassazione quattro quesiti referendari per restituire dignità al lavoro. È già partita la raccolta delle firme – sia nelle piazze che online – necessarie per andare poi al voto nella primavera del 2025.

Licenziamenti, contratti a termine, sicurezza: i quesiti abrogativi della Cgil si scagliano contro il Jobs Act, la legge approvata nel 2015 che ha impoverito il lavoro e reso i lavoratori meno protetti e più vulnerabili. Il sindacato di Corso Italia  si mobilita per ridurre la precarietà e garantire più sicurezza negli appalti e quindi nei luoghi di lavoro.

Il Jobs Act in breve

Con la riforma del diritto del lavoro, comunemente chiamata Jobs act, il governo Renzi ha voluto rendere più flessibile il mercato del lavoro. Secondo la Cgil e molti esperti del settore, però, l’avrebbe fatto ai danni di lavoratrici e lavoratori. Il Jobs Act ha infatti introdotto il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e la possibilità da parte del datore di lavoro di licenziare un lavoratore dipendente senza giusta causa.

Nel caso di licenziamento illegittimo la riforma ha rimosso la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro. In sostituzione ha previsto il diritto ad ottenere un’indennità come risarcimento, più alta al crescere dell’anzianità lavorativa (tutele crescenti). Infine, la legge prevede un utilizzo più flessibile dei contratti a tempo determinato, con la possibilità di essere prorogati fino ad un massimo di 5 volte prima dello scatto dell’indeterminato.

Abrogazione del Jobs Act

Il primo quesito referendario mira proprio a cancellare l’intero decreto legislativo del Jobs Act.  Secondo la Cgil la riforma ha precarizzato il lavoro e tolto tutele al lavoratore. Chiunque è stato assunto dopo il 2015 – quindi per lo più giovani – può essere infatti licenziato in qualsiasi momento e senza motivo.

Con il secondo quesito si intende superare la norma che impone un tetto massimo all’indennizzo per licenziamento illegittimo. Attualmente la legge prevede 6 mensilità, maggiorabile dal giudice fino a 10 per il lavoratore con anzianità superiore a 10 anni, e fino a 14 per quello con più di vent’anni. La Cgil vuole ritornare alla vecchia disciplina che prevedeva la riassunzione o un indennizzo commisurato dal giudice in caso di licenziamento illegittimo.

Meno precarietà e più sicurezza sul lavoro

Il terzo quesito riguarda il contratto a termine e intende intervenire sulle norme che ne hanno liberalizzato l’uso da parte delle aziende. Secondo i dati diffusi recentemente da Pagella Politica, attualmente in Italia il 15% degli occupati risulta essere a termine, circa 3 milioni tra settore pubblico e privato.

Per definizione un’azienda dovrebbe stipulare contratti a termine nei casi in cui si presentino esigenze temporanee da soddisfare: sostituzioni maternità, picchi produttivi, stagionalità e così via. Nella realtà dei fatti è diventato invece un meccanismo del quale le aziende abusano che non fa altro che rendere la vita dei lavoratori incerta e precaria. Con il referendum la Cgil vuole quindi abrogare le norme che consentono di stipulare contratti a temine senza alcun motivo specifico, ponendo un limite di 24 mesi ai rinnovi e alle proroghe.

Il quarto ed ultimo quesito coinvolge la disciplina degli appalti e nello specifico punta ad aumentare la sicurezza nei luoghi di lavoro. Oggi se un’azienda affida in appalto un’attività a un’altra e questa a un’altra ancora, i committenti non sono responsabili in caso di infortunio o di malattia professionale del lavoratore. Questo vuol dire che il lavoratore non può chiedere nessun risarcimento del danno alle imprese committenti. Il quesito vuole cancellare la norma che esclude questa responsabilità.

Con l’esternalizzazione, secondo la Cgil, le aziende punterebbero all’abbattimento dei costi risparmiando sulla sicurezza o applicando contratti irregolari. Questo avrebbe portato ad una crescita degli infortuni sul lavoro, specie in situazioni di appalto e subappalto. L’effetto della cancellazione sarebbe quello di rafforzare e ampliare la sicurezza sul lavoro e di spingere i committenti a selezionare appaltatori adeguati.

Verso il voto nel 2025

“Il lavoro, le persone e le loro vite devono tornare ad essere un bene pubblico. Per questo vogliamo lanciare una campagna, per dare un futuro al nostro Paese”. Queste le parole con cui il Segretario Generale della Cgil Maurizio Landini ha lanciato la campagna referendaria “Per il lavoro ci metto la firma”. La Cgil, dunque, tende la mano al Paese per accompagnarlo al voto sui referendum abrogativi nel 2025. Un voto orientato a migliorare la vita di lavoratrici e lavoratori e a rimettere le basi per un mondo del lavoro più equo, che rimetta al centro la persona.

 

Di Matteo Mercuri


Spostamento crediti, Commissione ECM stabilisce nuova data.

La Commissione nazionale per la formazione continua è tornata ad esprimersi sul tema dello spostamento crediti. Ovvero quella procedura che avrebbe permesso ai professionisti sanitari, a partire da aprile 2024 di spostare i crediti ECM accumulati nel 2023 (stabilito come anno di proroga) dal triennio 23/25 al triennio 20/22 sul sito CoGeAPS, per trovarsi in regola con il proprio obbligo formativo.

Nella delibera 6/24, la Commissione ECM stabilisce: Lacquisizione dei crediti formativi relativi al triennio 2020-2022 è consentita fino al 31 dicembre 2023, per tutti i professionisti che hanno conseguito i crediti entro tale data. Lo spostamento dei crediti è consentito fino al 31 dicembre 2025.

Ne abbiamo parlato con l’esperto del sistema ECM Sandro Di Sabatino, che il prossimo 28 maggio parteciperà al webinar “Obbligo formativo ECM e assicurazioni: le ultime novità. A cosa fare attenzione nel triennio”, organizzato da Consulcesi Club, per fornire una spiegazione tecnica dettagliata sulla procedura.

"La delibera modifica quella del 8 dicembre 2023 – spiega Di Sabatino - la quale prevedeva che l’acquisizione dei crediti formativi relativi al triennio 2020-2022 fosse consentita fino al 31 dicembre 2023, per eventi con “data di fine evento” al 31 dicembre 2023. La possibilità di spostamento dei crediti era consentita fino al 30 giugno 2024. Con questa modifica si stabilisce non solo che il termine ultimo per lo spostamento è il 31 dicembre 2025, ma che l’acquisizione dei crediti relativi al triennio 2020-2022 è consentita per i professionisti che hanno conseguiti i crediti entro il 31 dicembre 2023. Questo significa che se un professionista ha ottenuto crediti entro la data del 31 dicembre 2023, i suoi crediti sono utili anche se la data fine dellevento è successiva”.

Il nodo assicurativo: il rischio per i professionisti sanitari

Questa decisione permette ai provider di completare la certificazione di tutti i crediti accumulati dal 2020 al 2023 e, contemporaneamente, concede più tempo ai sanitari per completare tecnicamente la procedura e trovarsi in regola per la fine del triennio in corso. Una decisione di certo influenzata dalle ferme parole del ministro della Salute Orazio Schillaci, che ha confermato che - con il decreto attuativo dello scorso febbraio - la Legge Gelli stabilisce che, senza essere in regola con il 70% dei crediti ECM, si rischierà la mancata copertura assicurativa in caso di contenzioso.

“Sicuramente trovarsi in regola con lobbligo ECM è necessario per non trovarsi scoperti con la propria polizza in caso di contenzioso – conferma anche l’esperto -. La formazione Continua è comunque un dovere deontologico (e quindi sanzionabile dagli ordini) per il medico e per qualsiasi operatore sanitario. Essere adeguatamente formato e aggiornato è un requisito essenziale per rispondere al diritto del paziente di essere curato da un professionista preparato e adeguatamente al passo con l’evoluzione della ricerca scientifica”.

Trienni 14/16 e 17/19, che succederà?

Resta ancora l’interrogativo sui trienni 14/16 e 17/19? Manca ancora una delibera specifica. I crediti compensativi saranno accumulabili nel triennio 23/25?

“Manca ancora una delibera che stabilisca i criteri e le modalità del recupero dei crediti – conferma Di Sabatino -. Una delle opzioni su cui si sta discutendo è quella di individuare, per ogni professionista, i crediti residui dei trienni precedenti e sommarli al suo obbligo formativo individuale del triennio in corso. In questo modo ognuno potrà sanare la sua posizione con l’acquisizione in questo triennio anche dei crediti non ottenuti in quelli precedenti. Su questo punto però restiamo in attesa della decisione della Commissione nazionale per la Formazione Continua”.

 

Fonte "Quotidiano Sanità"

 


Semaforo verde alle nuove convenzioni per Medici di famiglia e specialisti ambulatoriali

Via libera in Conferenza Stato regioni all‘Accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i Medici di medicina generale e a quello per gli Specialisti ambulatoriali interni, Veterinari ed altre Professionalità sanitarie (Biologi, Chimici, Psicologi) ambulatoriali, relativi al triennio 2019-2021

Dopo l’ok della Corte dei Conti e il via libera oggi in Conferenza stato regioni decollano definitivamente Accordi Collettivi Nazionali 2019-2021 per la disciplina dei rapporti con i Medici di medicina generale e con gli specialisti ambulatoriali interni, veterinari ed altre professionalità sanitarie (biologi, chimici, psicologi) ambulatoriali.

Tra le principali novità, il nuovo Acn di medici di Famiglia attua il Ruolo Unico, garantendo a ogni medico il tempo pieno, nel rispetto dei diritti acquisiti per i medici già convenzionati, consolidando la prossimità dell’assistenza attraverso la rete degli studi medici. E ancora, definisce con accuratezza alcune tutele in relazione alla genitorialità e alla femminilizzazione della professione. Risolte anche le contraddizioni sui modelli di autonomia di gestione degli studi medici che potranno anche ospitare gli specialisti per la presa in carico dei pazienti cronici.

Tra gli aspetti normativi più significativi della Convenzione con gli specialisti ambulatoriali, spiccano: il riconoscimento del ruolo della specialistica ambulatoriale nell’equipe territoriale prevista dal Dm 77, quindi nelle Case di Comunità Hub e Spoke, Ospedali di Comunità, nei rapporti con le Cot e nell’Assistenza specialistica domiciliare; misure volte a garantire una maggiore flessibilità lavorativa. C’è un’attenzione particolare alle politiche di genere in particolare la maternità. L'accordo introduce quindi importanti norme a tutela della salute e della presa in carico specialistica dei pazienti facendo particolare attenzione a non perdere risorse economiche, sia strutturali che a progetto, anche quando queste non prevedono gli specialisti convenzionati. È previsto il graduale incremento di ore specialistiche ad iso-risorse per assistere i pazienti allo scopo di ridurre le lunghe liste d’attesa e gli accessi impropri nei Pronto Soccorso.

 

Articolo da "Quotidiano Sanità"


“La povertà aumenta, non parliamone soltanto una volta all’anno”

La presidente degli assistenti sociali sui dati Istat: cura delle persone, "i sussidi non bastano"

“Quello che l’Istat certifica, analizzando dati, è davanti ai nostri occhi ogni giorno: la povertà aumenta e cambia volto, coinvolge e trascina in situazioni di disagio anche chi ha un lavoro, magari fisso, ma non retribuito nel modo giusto. Famiglie, persone sole, anziani e bambini sono sempre più in difficoltà e quel che è terribile, è che a meno di casi di cronaca eclatanti, se ne parli soltanto quando arriva la statistica annuale”.

Barbara Rosina, presidente dell’Ordine degli Assistenti Sociali, commenta i dati dell’Istituto italiano di statistica sulla povertà del 2023 che, dopo essere rimasti fermi per un biennio, segnano un balzo in avanti.

“Ripetiamo da anni che i sussidi, pur essendo fondamentali, non bastano – aggiunge – Bisogna accompagnare le persone: servizi a domicilio, case a prezzi accessibili, educazione finanziaria, borse di studio e accesso all’istruzione, sanità gratuita e disponibile… L’elenco potrebbe non finire, ma serve un’attenzione quotidiana non un titolo una volta all’anno”.


ADI: più tempo per il primo incontro con i servizi sociali

Un sospiro di sollievo per le e gli assistenti sociali impegnati nella gestione dell’Assegno di Inclusione. In una circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 28 marzo, ma pubblicata ieri sul sito MLPS, si precisa che per le domande presentate dal 18 dicembre al 29 febbraio, la conta dei 120 giorni del primo incontro da parte dei servizi sociali con il nucleo familiare beneficiario della misura potrà decorrere dal momento della trasmissione dei dati da parte di INPS al Comune e non dalla sottoscrizione del Patto di attivazione digitale (PAD).

Negli ultimi giorni, a causa del mancato dialogo delle piattaforme, proprio al termine della primitiva scadenza dei 120 giorni dal PAD, sono state caricate migliaia di domande ADI sulle piattaforme dei Comuni causando non poche apprensioni da parte dei colleghi e delle colleghe in difficoltà nella gestione di questo flusso. La circolare ministeriale consentirà ai Comuni con un numero ingente di domande di poter calendarizzare in un tempo più ampio i primi incontri dando ai servizi sociali il tempo utile per poter interloquire con le persone e poter costruire con loro un percorso di inclusione sociale e non ridurre l’intervento sociale ad un click day.

Mentre il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali lavora al riallineamento delle piattaforme e delle relative scadenze, resta fermo che per le domande presentate a partire dal 1° marzo 2024 il termine dei 120 giorni per la convocazione e la conseguente presentazione al primo appuntamento decorrerà dal momento della sottoscrizione del PAD.


Milleproroghe: le misure che riguardano il settore sanitario

A sole 48 ore dall'approvazione alla Camera, l'assemblea di Palazzo Madama ha varato in via definitiva il milleproroghe con voto di fiducia. Il provvedimento ora è legge. Da segnalare che il milleproroghe è arrivato all'esame dell'Aula senza mandato al relatore.

Esteso a tutto il 2024 lo scudo penale per gli operatori sanitari, in attesa di una riforma complessiva della materia. Dopo diversi tentativi, è stata approvata anche la possibilità da parte degli enti del Ssn di trattenere in servizio, su base volontaria, i dirigenti medici, sanitari e i docenti universitari che svolgono attività assistenziale fino a 72 anni. Ma senza la possibilità, per questi, di mantenere o subentrare in ruoli apicali. Un milione di euro andrà alla Fonazione Ebri per la ricerca di nuove strategie terapeutiche per malattie neurodegenerative, del neuro-sviluppo. Rinnovato poi il finanziamento del fondo per il contrasto dei disturbi dell'alimentazione. Incrementati i finanziamenti per il bonus psicologo e l'assistenza ai bambini affetti da patologie oncologiche.

Leggi il testo integrale 

Di Giovanni Rodriquez


Il nuovo contratto dei medici contro gli stereotipi di genere

“Il linguaggio dà forma alla realtà: se i ruoli di genere mutano, la lingua si deve adeguare”

Il rinnovo del contratto della dirigenza medica, veterinaria e sanitaria segna un passo avanti nella lotta agli stereotipi di genere, contro le discriminazioni e verso le pari opportunità. Il nuovo contratto introduce un elemento unico, per il momento, fra tutti i contratti pubblici: l’invito a prestare attenzione all’uso di una lingua inclusiva e non discriminante, con particolare attenzione al genere. È una dichiarazione che non ha valore di norma né è vincolante, ma chiarisce perfettamente quali siano le intenzioni delle parti: promuovere comportamenti inclusivi.

Dopo la decisione presa dalla Corte Costituzionale, di modificare l’intestazione delle proprie sentenze passando da un maschile “Signori” ad una formula che non fa più riferimento a nessun genere per i Magistrati, anche il linguaggio della contrattazione collettiva si propone di diventare più inclusivo.

Il dibattito sull’uso del linguaggio come strumento di contrasto alle discriminazioni di genere ha storia quarantennale in Italia, seppur avviato tardivamente rispetto ad altri Paesi. Il linguaggio è uno strumento con cui diamo forma alla realtà. La lingua, quindi, rispecchia la cultura di una società e ne influenza i comportamenti. Per tale ragione, con le parole possiamo rafforzare stereotipi e luoghi comuni, oppure possiamo provare a mettere in discussione ciò che diamo per scontato e immutabile.

L’uso di termini maschili per designare una donna, per esempio nei nomi che indicano le professioni, ci risulta naturale, ma di fatto non lo è. Sembra naturale solo perché l’uso si è consolidato nel tempo ed è diventato abitudine, ma è frutto di una costruzione culturale. Così come per secoli si è ritenuto “naturale” che una donna non lavorasse fuori di casa, dovesse occuparsi in maniera esclusiva dell’accudimento dei figli e fosse la sola a svolgere i lavori domestici.

Le donne, oggi, hanno sicuramente raggiunto maggiori posizioni di prestigio nelle istituzioni e nelle Aziende rispetto a qualche decennio fa. E se i ruoli di genere mutano, la lingua si deve adeguare, perché non è immobile. Se non si modificasse, si negherebbero quei cambiamenti già prodottisi in termini di parità di genere, che, seppur a fatica, hanno infranto alcune barriere e incrinato il soffitto di cristallo. Il linguaggio dei contratti deve raccontare questa nuova realtà, altrimenti si perpetuerà un’invisibilità femminile che riproduce stereotipi e pregiudizi piuttosto che riconoscere la presenza, lo status e il ruolo delle donne nella società.

Il merito della dichiarazione è quello di aver posto attenzione al linguaggio per superare i pregiudizi di genere culturalmente radicati e per questo difficilmente percepiti. È un invito a modificare quelle consuetudini rese automatiche dall’uso e rafforzate fino a diventare norma man mano che le ripetiamo.

Il nesso tra linguaggio ed esigenze di tutela è un tema che riguarda tutti, soprattutto il sindacato storicamente ispirato all’universalità dei diritti che attraverso la contrattazione collettiva dovrebbero trovare una compiuta attuazione.

Il cammino verso la parità di genere concreta e reale è ancora lungo; il nuovo contratto ne costituisce un fondamentale step.

 

Di Maria Teresa Coppola
Funzione Pubblica CGIL Medici e Dirigenza Sanitaria


Disturbi alimentari, l’esperto: “Il fondo? Bisogna fare di più”

Filippo Iovine è Responsabile di un Ambulatorio per i DCA: “È necessario aumentare i finanziamenti di tutti i servizi di salute mentale”

Venerdì 19 gennaio migliaia di studenti in 30 città italiane sono sceseìi in piazza per protestare contro la decisione del Governo di azzerare il Fondo per la cura dei disturbi alimentari. Questa scelta, per nulla condivisa dall’opinione pubblica, ha prepotentemente riacceso i riflettori sulle patologie di natura alimentare, probabilmente ancora troppo sottovalutate. Per approfondire il tema, abbiamo intervistato lo psichiatra e psicoterapeuta Filippo Iovine, Direttore del Centro Salute Mentale di Andria e Responsabile dell’Ambulatorio per i Disturbi dei Comportamenti Alimentari (DCA) di Trani. Dal 2014 ha avviato insieme ad altri colleghi un ambulatorio specifico sui disturbi del comportamento alimentare: “Sentivamo la necessità di offrire una risposta strutturata all’utenza per questo tipo di patologie, che prima non c’era”.

Direttore, qual è l’approccio al disturbo del comportamento alimentare?

Il disturbo del comportamento alimentare è una problematica che attualmente rientra tra quelle di salute mentale, ma che ha bisogno invece di un approccio multidisciplinare e altamente specializzato. Può essere utile, infatti, l’intervento di uno psicologo, di un cardiologo, di un gastroenterologo o di un dietologo: tutte figure che non sono previste negli organici di salute mentale. Curare pazienti affetti da anoressia o bulimia è alquanto complesso: loro la ‘cura’ l’hanno già trovata nel calo di peso e nei loro comportamenti. Capita che rifiutino la “nostra” cura perché non sono convinti che possa essere vantaggiosa, non vogliono cambiare. Questi disturbi sono il risultato di diversi fattori fisici e psichici; quindi, è sempre preferibile che vi sia un approccio nutrizionale specialistico volto a recuperare un comportamento alimentare e condizioni generali accettabili. A questo si deve accompagnare un approccio psicologico che aiuti a comprendere le proprie difficoltà, paure e problematiche anche sul piano psicologico. Il percorso di cura dura mediamente un anno e ovviamente dipende da caso a caso, a seconda della gravità.

Il vostro servizio è passato dall’essere attivo un pomeriggio a settimana ad un servizio di tre giornate piene e tre mezze giornate a settimana. Quanto è aumentata l’esigenza di affrontare queste patologie?

La richiesta di cura è cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni. Dal 2014 ad oggi abbiamo avuto 532 pazienti – di cui il 50% ha meno di 24 anni – e ad oggi ne abbiamo in cura circa 150. Il picco c’è stato durante e dopo la pandemia: se prima avevamo una media di 50 pazienti all’anno, dal 2021 il numero è salito a 100. Questo ha portato anche ad un notevole incremento della nostra attività, che poi però ha dovuto fare i conti con la ristretta disponibilità delle risorse.

Da cosa scaturiscono i disturbi del comportamento alimentare?

Una delle problematiche spesso è l’accettazione della propria immagine corporea. Viviamo in una società nella quale il valore della bellezza corrisponde a quello di magrezza, e questo è prevalente soprattutto nel genere femminile. Questa è una patologia che si presenta spesso nelle ragazze molto intelligenti, che hanno la tendenza a primeggiare, che spesso sono le prime della classe, competitive. Il problema sorge quando la competizione la intraprendono con il proprio corpo: lì avviene un vero e proprio cortocircuito.

In particolare, cosa è accaduto con la pandemia?

Durante la pandemia la chiusura delle scuole, delle università e il fare tutto a distanza, hanno privato enormemente i più giovani di relazioni fondamentali. Questo ha portato all’esplosione di tutta una serie di paure, di ansietà e di tensioni che hanno avuto inevitabili ripercussioni sull’alimentazione, con diete fai da te (assolutamente sconsigliate) o alimentazione incontrollata.

Come è strutturato e organizzato il vostro organico?

Nel nostro caso si traduce in professionisti che prestano la propria professionalità e le proprie competenze per poter garantire una risposta il più possibile efficace a questo tipo di problematiche. Io ne sono un esempio: la mia attività è quella di direttore del Centro di Salute Mentale di Andria, ma inevitabilmente tolgo del tempo per poter garantire il servizio ai pazienti con disturbi del comportamento alimentare. Abbiamo due infermieri, un operatore sociosanitario e due psicologi a tempo pieno, ma tutte le altre figure mediche sono professionisti costretti a rubare del tempo alla propria funzione principale. Oltre a me, ci sono quindi una psichiatra, uno specialista dell’alimentazione, una nutrizionista, due psicologhe, una terapista per la riabilitazione e un’educatrice.

Riuscite a soddisfare tutte le esigenze della vostra utenza?

In tutta onestà, no. Attualmente abbiamo 18 persone che sono in lista d’attesa. L’esiguità delle risorse che abbiamo a disposizione non ci permette di offrire la risposta che vorremmo. Quando nel 2021 c’è stato un incremento del 30% della domanda di cura, a questo aumento purtroppo non ha potuto corrispondere alcuna estensione del personale. Inoltre abbiamo dovuto introdurre un limite di 13 anni d’età minima dei nostri pazienti. Questo perché avremmo bisogno di almeno un neuropsichiatra infantile che al momento non ci possiamo permettere. Lo stesso discorso vale poi per altre figure: ci servirebbero come il pane anche un terzo psicologo ed un dietologo. Nonostante tutto dobbiamo anche ritenerci fortunati perché la nostra azienda sanitaria ha sempre cercato di venire incontro alle nostre richieste: immagino non accada dappertutto. Il fondo di 25 milioni istituito dal Governo Draghi è stata una boccata di ossigeno: mi ha permesso di effettuare la richiesta di uno psicologo e di una dietista. Non solo. Ho potuto richiedere l’acquisto di nuove strumentazioni e implementare l’attività di promozione della salute rispetto ai disturbi del comportamento alimentare, davvero fondamentale.

Il Governo aveva inizialmente azzerato il Fondo dedicato alla cura dei disturbi del comportamento alimentare, voluto nel 2021 dal Governo Draghi. Poi ha fatto dietrofront. Quali sarebbero state le conseguenze di questo taglio?

A livello burocratico è stato complicato avviare tutte le pratiche per implementare il nostro organico e acquistare nuove strumentazioni. Ora che stiamo finalmente arrivando a toccare con mano i benefici di questo fondo, è chiaro che un blocco o una sua riduzione avrebbe creato un problema. Con il rifinanziamento del Fondo potremo dare continuità al nostro piano di assunzioni. Viceversa le figure che ora stiamo assumendo – che hanno contratti strettamente legati al fondo – sarebbero state costrette a cessare la loro attività. La nostra, tra l’altro, è una realtà avviata già da vari anni: in altre realtà meno o per nulla dotate sono state richieste molte più assunzioni e non immagino nemmeno cosa sarebbe significato per loro l’eliminazione o la riduzione del Fondo. Anche perché la sua istituzione aveva lo scopo di migliorare le strutture già esistenti, ma anche quello di avviare lì dove non c’erano l’istituzione di nuovi servizi.

Ora è stato annunciato un finanziamento strutturale…basterà?

Il rifinanziamento del fondo non risolve il problema ma è un elemento essenziale perché da quando il fondo è stato costituito è partito un lungo iter: il Ministero ha stanziato le risorse, che sono arrivate alle regioni che, a loro volta, hanno organizzato come spenderle e distribuirle alle Asl. Insomma, prima di essere effettivamente operativi passano dei mesi che vanno a erodere i termini che il Ministero dà per spendere le risorse. Per andare a regime, dunque, riconfermare il finanziamento è necessario. Ma non basta. Il Ministro ha detto che questi fondi devono diventare strutturali. Questo però deve valere per tutta la salute mentale.

Le risorse preannunciate sono sufficienti? In generale, pensa ci sia bassa attenzione riguardo ai disturbi del comportamento alimentare?

Che si tratti di 25 o 10 milioni, stiamo parlando di risorse ancora troppo esigue rispetto al problema. Abbiamo preso in carico 530 pazienti ma sono soltanto quelli che siamo riusciti ad intercettare. Se avessimo la possibilità e le risorse per poter fare prevenzione nelle scuole probabilmente sarebbero anche di più. Noi abbiamo ricevuto 124 mila euro per la progettualità di 12 mesi e si capisce che siamo lontanissimi dal poter sostenere con questo fondo le spese di un centro che necessita un determinato numero di specialisti. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la mortalità per disturbi del comportamento alimentare è la seconda causa di morte per i giovani sotto i 24 anni dopo gli incidenti stradali. È una patologia estremamente complessa, difficile da gestire e che non interessa soltanto il singolo utente, ma tutto il nucleo familiare. Una ragazza di 14 anni affetta da questa patologia è una vera e propria bomba, un fattore destruente per la serenità e per le relazioni di un’intera famiglia. Una delle cose che abbiamo previsto con l’implementazione del fondo, infatti, è un percorso di psico-educazione per i membri della famiglia, specie per i genitori perché devono essere aiutati a gestire queste situazioni e perché loro sono i primi a pagarne le conseguenze. Dobbiamo capire che non si può scherzare su questa tematica; stiamo giocando con la vita di questi ragazzi. Io e tanti altri professionisti non riceviamo una retribuzione per quello che stiamo facendo, lo facciamo per passione.

Come si comporta il resto d’Europa in merito?

L’Italia dedica alla salute mentale il 3% delle risorse per la sanità. La Spagna e il Portogallo vi dedicano il 5%, il Regno Unito spende il 9,5%, la Francia spende addirittura il 14,5%. Si tratta, nel nostro Paese, di una spesa pro-capite annua di appena 61 euro. È chiaro che non è sufficiente.

Cosa si può fare di più?

Coinvolgere, nella decisione sulla distribuzione delle risorse, chi lavora sul campo e conosce le necessità. Altrimenti rischiamo di avere risorse che non vengono utilizzate, nonostante siano già esigue. Se non mettiamo le strutture in condizione di utilizzare quelle risorse, abbiamo solo messo un cerotto ma non abbiamo curato la ferita.

 

di Matteo Mercuri e Martina Bortolotti


Pronto soccorso sotto pressione: il punto di “non ritorno” è sempre più vicino

Il settore sanitario è colpito in modo diffuso, dal nord al sud d’Italia, da criticità senza precedenti. “La vertenza sanità continuerà con altri scioperi”, hanno annunciato i sindacati che si sono mobilitati con particolare intensità negli ultimi mesi dell’anno, e che certamente continueranno a denunciare l’immobilismo della politica.

Gli ospedali sono in ginocchio, ma attualmente il settore più colpito appare quello dell’emergenza-urgenza. I pronto soccorso sono sempre più affollati, con picchi di affluenza che superano i 200 pazienti al giorno. Questa è la cruda realtà che attualmente stanno affrontando le strutture sanitarie italiane. Le regioni più colpite includono Lombardia, Piemonte, Lazio, Campania, Puglia, Calabria, Toscana e Sicilia, tutte alle prese con una drammatica carenza di posti letto e personale.

La situazione nei pronto soccorso in Italia

Lo stato dell’arte dei Pronto Soccorso italiani tracciato dall’Osservatorio Nazionale permanente della Società italiana di emergenza Urgenza (Simeu) è a dir poco preoccupante. Ogni anno i medici di pronto soccorso degli ospedali pubblici nazionali effettuano 4 milioni e mezzo di visite in più rispetto agli standard nazionali definiti dalle società scientifiche. Il 22% del totale delle visite mediche di pronto soccorso supera quindi il normale carico di lavoro dei professionisti dell’emergenza.

Ogni medico dovrebbe eseguire ogni anno al massimo 3.000 visite, che invece sfiorano i 4.000 per ciascun professionista. Un fenomeno preoccupante, che è la prima conseguenza della carenza di personale. I medici a tempo indeterminato nei pronto soccorso italiani sono 5.800 mentre, in base alle piante organiche delle aziende sanitarie, ne servirebbero oltre 8.300; i precari sono circa 1.500. Mancano quindi all’appello più di mille medici di pronto soccorso.

Un’insufficiente copertura dei turni necessari da parte del personale in organico genera invece l’attuale difficoltà di gestione. Nel 54% dei PS sono presenti contratti atipici. Nel 48% dei PS operano dirigenti medici provenienti da altri reparti dell’ospedale in regime di prestazione aggiuntiva. Nel 32% dei PS operano specializzandi di Medicina Emergenza-Urgenza (MEU). Nel 29% dei PS, infine, operano specializzandi non appartenenti al comparto dell’emergenza.. Dall’analisi effettuata da Simeu appare evidente che le soluzioni adottate sinora producono una frammentazione estrema del personale all’interno delle strutture, generando enormi difficoltà e stress per gli stessi professionisti sanitari.

Il grande esodo e il punto di “non ritorno” sempre più vicino

I pronto soccorso registrano un afflusso massiccio con pazienti che, in molti casi, devono attendere anche 24 ore per un esame o una visita. In altri casi, invece, i pazienti rimangono in attesa – anche per giorni – di posti letto nei reparti. Una conseguenza ineluttabile se si pensa che negli ultimi 20 anni i posti letto sono diminuiti del 32%: gli ospedali italiani ne hanno 3 ogni 1000 abitanti, la Germania, ad esempio, ne ha 9.  I professionisti rimasti in prima linea affrontano sfide crescenti, con infermieri e medici che, come il resto della popolazione, si ammalano, aggravando ulteriormente la situazione. Tanti altri, invece, prendono la palla al balzo e sfruttano la prima possibilità per lasciare i pronto soccorso.

Dai dati raccolti dalla Società Italiana di Emergenza Urgenza, negli ultimi 12 mesi hanno abbandonato i pronto soccorso 1.033 medici, di cui il 70% dimessi, pensionati, passati a medicina generale o al privato, e il 30% trasferiti ad altro reparto ospedaliero. I nuovi ingressi degli ultimi 12 mesi sono 567. Il bilancio tra fuoriusciti e nuovi ingressi è negativo per il 45%, per cui solo il 55% viene sostituito. I dirigenti medici mancanti rispetto al necessario sono oggi 4mila, pari al 40% del fabbisogno nazionale.

 

Di Matteo Mercuri